Vincere per perdere: il paradosso dell'auto elettrica cinese
Un'industria che sembrava conquistare il mondo si trova ora intrappolata in una spirale autodistruttiva di guerre dei prezzi, sovracapacità produttive e margini di profitto in caduta libera
Il successo che diventa nemico
La Cina ha conquistato il mondo delle auto elettriche con una velocità che ha lasciato tutti senza fiato. Sette veicoli elettrici su dieci venduti globalmente sono oggi “made in China”, un dominio che sarebbe sembrato fantascienza solo un decennio fa. Eppure, proprio nel momento del trionfo, l'industria automobilistica cinese si trova intrappolata in un paradosso potenzialmente distruttivo: questo successo sta diventando il suo peggior nemico.
I numeri descrivono una sproporzione allarmante. Mentre la domanda interna di veicoli elettrici dovrebbe raggiungere i 6 milioni di unità nel 2025, ai quali si aggiungono circa 1,5 milioni di veicoli elettrici esportati nell’ultimo anno, per un totale di 7,5 milioni, la capacità produttiva pianificata tocca i 37 milioni di veicoli all'anno. Non si tratta di un errore di calcolo o di ottimismo mal riposto: è il risultato di una corsa sfrenata alimentata da politiche governative che hanno trasformato la produzione di auto elettriche in una moderna febbre dell'oro. Dal 2012, quando i sussidi statali promettevano di raddoppiare gli incentivi per ogni veicolo prodotto, fino al periodo 2017-2019 quando i governi locali si sono lanciati nel settore, il denaro pubblico e i crediti bancari sono fluiti come fiumi in piena verso chiunque promettesse di assemblare batterie e motori elettrici.
Il risultato di questa euforia pianificata è un mostro industriale che oggi minaccia di divorare se stesso. Quando BYD, il colosso indiscusso del settore, ha annunciato a fine maggio scorso sconti fino al 34% su ventidue dei suoi modelli, non stava semplicemente lanciando una promozione stagionale. Stava accendendo la miccia di quella che il Quotidiano del Popolo ha definito una guerra dei prezzi "piena di polvere da sparo e ricca di pericoli nascosti e profondi". Nel giro di una settimana, oltre settanta modelli di case automobilistiche diverse hanno seguito l’esempio di BYD, trascinando l'intero settore in una spirale deflazionistica che ricorda da vicino i meccanismi che hanno portato al collasso del mercato immobiliare.
La matematica è spietata quanto semplice. L'industria automobilistica cinese nel suo complesso ha registrato un margine di profitto del 4,3% nel 2024, sceso ulteriormente al 3,9% nel primo trimestre del 2025. Per avere un termine di paragone, le catene di bubble tea locali godono di margini superiori al 20%. È una situazione grottesca: un'industria high-tech ad alta intensità di capitale che genera rendimenti inferiori a quelli di chi vende tè zuccherato in bicchieri di plastica. Quando il settore manifatturiero nazionale registra in media il 6% di margine di profitto, vedere l'automotive scendere sotto il 4% significa assistere alla sistematica distruzione di valore su scala industriale.
Le scorte accumulate nei magazzini raccontano la stessa storia da un'altra angolazione. Ad aprile 2025, l'inventario nazionale ha toccato i 3,5 milioni di veicoli invenduti, il livello più alto dal dicembre 2023, nonostante molti stabilimenti operino ben al di sotto della loro capacità. Bloomberg ha calcolato che il tasso medio di utilizzo degli impianti nel settore automobilistico cinese è stato appena del 49,5% l'anno scorso. In altre parole, metà della gigantesca macchina produttiva cinese gira a vuoto, bruciando risorse per produrre veicoli che nessuno compra ai prezzi di listino.
Ma il vero incubo finanziario si nasconde nei bilanci. L'industria automobilistica cinese deve affrontare debiti a breve termine per circa 2 trilioni di yuan (circa 278 miliardi di dollari) che scadranno entro il 2025. Si tratta di una cifra che supera di oltre il doppio l'esposizione debitoria a breve termine dell'intero settore immobiliare cinese, considerato da tutti sull'orlo del collasso. La differenza cruciale sta nella natura dei creditori. Le società immobiliari sono principalmente indebitate verso banche e istituzioni finanziarie, mentre le case automobilistiche hanno accumulato i loro debiti verso i fornitori della filiera produttiva. Questa distinzione non è meramente tecnica: quando una banca vanta un credito, può bloccare conti correnti e sequestrare beni per recuperare il dovuto. I fornitori, invece, non dispongono di tali strumenti coercitivi. Possono solo aspettare che il debitore onori spontaneamente i propri impegni.
Questa forma di indebitamento, apparentemente meno pericolosa perché priva delle minacce coercitive bancarie, nasconde però un pericolo sistemico ancora maggiore per l'economia reale. Oltre l'80% della catena di fornitura automobilistica è costituita da piccole e medie imprese con scarsa capacità di resistenza ai rischi finanziari. Quando i grandi costruttori ritardano sistematicamente i pagamenti di mesi, come sta accadendo, queste aziende si trovano in una posizione di estrema vulnerabilità, impossibilitate a reagire efficacemente contro debitori tanto più potenti. La pressione finanziaria si propaga lungo l'intera filiera industriale, creando una catena di tensioni che potrebbe spezzarsi in qualsiasi momento.
L'effetto di questa guerra dei prezzi si è propagato ben oltre i confini dell'industria automobilistica. Quando BYD ha annunciato i propri drastici sconti, i mercati internazionali delle materie prime hanno reagito immediatamente. I futures della gomma naturale alla Borsa di Osaka sono crollati del 4% in una sola giornata, toccando i livelli più bassi dal febbraio 2024. Non è un dettaglio marginale: il 70% della domanda di gomma naturale proviene dall'industria degli pneumatici, e la prospettiva di una guerra dei prezzi nel settore automobilistico ha fatto temere agli operatori una compressione generale dei margini lungo tutta la catena del valore. Anche il butadiene, materia prima per la gomma sintetica, ha subito pressioni analoghe, dimostrando come le decisioni strategiche di BYD abbiano ormai ripercussioni sui mercati globali delle commodity.
Consapevole del pericolo sistemico, Pechino ha iniziato a muoversi. All'inizio di giugno, funzionari del Ministero dell'Industria e della Tecnologia dell'Informazione, dell'autorità di regolamentazione del mercato e della principale agenzia di pianificazione economica hanno convocato a Pechino i vertici delle principali case automobilistiche elettriche, inclusi BYD, Geely e Xiaomi. Il messaggio è stato chiaro quanto inusuale: "autoregolamentatevi", non vendete auto sottocosto, evitate tagli di prezzo irragionevoli.
È raro che i regolatori di mercato, industriali ed economici della Cina ospitino congiuntamente una riunione con l'industria automobilistica su questioni operative come i prezzi. Questo coordinamento inter-ministeriale rivela quanto seria sia diventata la preoccupazione ai vertici del potere. Il governo ha anche affrontato la questione delle "auto a chilometraggio zero", una pratica in cui i costruttori che non riescono a raggiungere i loro obiettivi di vendita scaricano veicoli nuovi su società di finanziamento della catena di fornitura o rivenditori di auto usate, registrandoli come vendite sebbene gli stessi non abbiano mai raggiunto il consumatore finale.
L'ironia suprema è che questa guerra fratricida sta avvenendo proprio mentre l'industria cinese delle auto elettriche sembrava pronta a conquistare definitivamente il mondo. Il successo nelle esportazioni, che ha portato la Cina dal sesto posto mondiale nel 2020 al primo nel 2023, rischia di essere vanificato dall'implosione interna. Come ha osservato il Ministero dell'Industria in una rara dichiarazione pubblica: "Non ci sono vincitori nelle guerre dei prezzi, e certamente non c'è nessun futuro positivo".
È il classico paradosso dell'impero che conquista territori lontani mentre il cuore del regno si sgretola: la Cina delle auto elettriche ha conquistato i mercati globali diventando il primo esportatore mondiale, ma questa vittoria apparente maschera una sconfitta economica interna sempre più evidente. L'industria che doveva rappresentare il fiore all'occhiello dell'innovazione tecnologica cinese si trova ora intrappolata in una spirale autodistruttiva di guerre dei prezzi e margini in caduta libera.
La sovracapacità produttiva, concepita originariamente come il trampolino di lancio per il dominio globale, si sta rivelando il tallone d'Achille di un settore che ha sistematicamente confuso la crescita quantitativa con il successo strategico. Avere 37 milioni di unità di capacità produttiva per soddisfare una domanda di 7,5 milioni significa aver costruito un gigante dai piedi d'argilla, destinato a crollare sotto il peso delle proprie contraddizioni.
Filosofie in guerra
La rivalità tra Lei Jun di Xiaomi e Richard Yu di Huawei rappresenta molto più di uno scontro tra CEO: è la manifestazione di una frattura filosofica che attraversa l'intera industria cinese delle auto elettriche. Da un lato c'è l'approccio di Huawei basato sull'eccellenza ingegneristica, la ricerca interna e il controllo totale della catena tecnologica. Dall'altro la strategia di Xiaomi che punta sulla "disruption democratica": rendere accessibili tecnologie avanzate attraverso prezzi aggressivi e integrazione ecosistemica.
Queste due visioni incarnano il dilemma fondamentale dell'industria cinese nell'era post-crescita: privilegiare la perfezione tecnica rischiando di perdere velocità di mercato, oppure puntare sull'accessibilità e l'esecuzione rapida accettando compromessi sulla qualità. Huawei investe massicciamente in ricerca e sviluppo per creare differenziazione tecnologica sostanziale, mentre Xiaomi sfrutta la sua expertise nell'integrazione digitale per accelerare i tempi di ingresso sul mercato e ottimizzare i costi.
Tuttavia, entrambe le strategie si scontrano con una realtà di mercato spietata dove nessuna delle due filosofie sembra garantire il successo. Mentre Xiaomi e Huawei si logorano in dispute concettuali, altri competitor consolidano le loro posizioni dominanti, dimostrando che in un settore saturo e autodistruttivo anche le visioni più coerenti rischiano di rimanere relegate ai margini della competizione.
La supremazia di BYD nel settore non è solo finanziaria, ma strategica. Mentre i suoi concorrenti si logorano in dispute filosofiche, BYD ha costruito un impero industriale verticalmente integrato che controlla ogni aspetto della catena del valore, dalle batterie ai semiconduttori. Quando ha scatenato la guerra dei prezzi con sconti fino al 34%, non stava semplicemente cercando di aumentare le vendite: stava usando la sua potenza finanziaria per testare la resistenza dei concorrenti in un mercato sempre più saturo.
Questa dinamica competitiva spietata ha iniziato a produrre le prime vittime illustri. SAIC Motor e Guangzhou Automobile Group hanno visto i loro profitti crollare rispettivamente dell'88% e dell'81% a causa delle difficoltà delle joint venture con partner occidentali. Tra le startup delle auto elettriche, solo Li Auto e Leapmotor sono riuscite a raggiungere la profittabilità, mentre giganti come NIO e XPeng continuano a bruciare denaro senza una chiara via d'uscita.
La clamorosa decisione di un altro gigante come Geely di fermare la costruzione di nuovi stabilimenti produttivi segna simbolicamente la fine dell'era dell'espansione a tutti i costi. Il presidente Li Shufu ha dichiarato al Chongqing Auto Show che l'azienda "eviterà di costruire altre capacità in eccesso e si concentrerà invece sul miglioramento delle capacità tecnologiche per diventare un attore chiave nel futuro della mobilità". È un segnale che l'industria sta finalmente prendendo atto dei limiti della crescita quantitativa e sta cercando puntando a quello che sarà un doloroso processo di riequilibrio.
Il tempo per invertire la rotta potrebbe essere già scaduto. L'industria cinese delle auto elettriche conta oltre cento produttori che competono per un mercato capace di sostenere economicamente al massimo una dozzina di attori. In questa situazione, la consolidazione non rappresenta più uno scenario possibile tra tanti, ma un epilogo inevitabile e imminente. L'unica incognita riguarda i tempi e l'identità dei sopravvissuti.
La rivalità tra Xiaomi e Huawei si trasforma così in una lotta per evitare l'estinzione piuttosto che per conquistare la supremazia. Nonostante entrambe abbiano sviluppato strategie coerenti e potenzialmente valide, la matematica del mercato è implacabile: quando la capacità produttiva supera di sei volte la domanda e i margini di profitto scendono sotto quelli delle catene di bubble tea, anche le visioni più brillanti rischiano di naufragare. Il settore si avvia verso una crisi sistemica che potrebbe non limitarsi a eliminare i concorrenti più deboli, ma travolgere l'intera industria in un collasso simile a quello che ha devastato il mercato immobiliare cinese. Con debiti a breve termine per 2 trilioni di yuan in scadenza nel 2025 e una catena di fornitori già sotto pressione finanziaria estrema, la domanda non è più chi sopravviverà, ma se qualcuno riuscirà davvero a uscire indenne da questa tempesta autodistruttiva.
Dalla crisi interna alla conquista globale
La guerra commerciale di Trump ha svelato una verità imbarazzante per l'industria automobilistica globale: mentre le aziende occidentali si agitavano freneticamente per riorganizzare le loro catene di fornitura, i produttori cinesi di veicoli elettrici osservavano la tempesta con una calma che nascondeva anni di preparativi strategici. Ma questa apparente invulnerabilità maschera una realtà più complessa: l'industria cinese non sta solo conquistando mercati esteri, sta fuggendo dai problemi interni.
Il disaccoppiamento tra le industrie automobilistiche americana e cinese era già una realtà consolidata prima che Trump annunciasse dazi fino al 145%. Nel 2024, la Cina ha esportato appena 116.000 veicoli negli Stati Uniti, una cifra che rappresenta solo l'1,8% delle sue esportazioni totali di auto. Le aziende cinesi avevano già messo a punto catene di fornitura parallele e sviluppato alternative ai componenti americani, preparandosi al peggio mentre i loro concorrenti occidentali confidavano nella stabilità geopolitica.
Quando la tempesta dei dazi è arrivata, il contrasto è stato stridente. Tesla si è trovata vulnerabile con il Cybertruck, le cui batterie a basso voltaggio da 48V prodotte in Cina potrebbero rappresentare oltre il 50% del costo totale del veicolo dopo un dazio del 145%. Ford ha dovuto quasi fermare la produzione del SUV elettrico Mustang nel suo stabilimento di Chongqing. Le aziende cinesi, invece, hanno assorbito l'impatto con aumenti di costo marginali di poche centinaia di yuan per veicolo.
Tuttavia, questa capacità di resistenza tattica alle guerre commerciali nasconde una fragilità strategica molto più profonda. L'espansione globale frenetica dell'industria cinese non rappresenta solo ambizione imperialista: è una fuga necessaria da un mercato interno saturo e autodistruttivo. La trasformazione della Cina dal sesto esportatore mondiale di automobili nel 2020 al primo nel 2023 riflette tanto il successo commerciale quanto la disperazione di trovare sbocchi per una capacità produttiva eccessiva.
Questa corsa verso i mercati esteri si sta però scontrando con una muraglia crescente di resistenze. L'Unione Europea ha imposto dazi fino al 45,3% sulle importazioni di veicoli elettrici dalla Cina, risparmiando solo i modelli ibridi dalle nuove imposte. Anche la Russia, uno dei mercati di sbocco più importanti per la produzione automobilistica cinese, ha alzato le barriere aumentando i dazi e introducendo nuove tasse e controlli sulla sicurezza. Le conseguenze sono immediate: Xu Haidong, vice ingegnere capo dell'Associazione cinese dei produttori di automobili, prevede che le esportazioni verso la Russia crolleranno di almeno il 30% quest'anno, scendendo a circa 800.000 veicoli. Persino in Messico, che nel 2024 si era affermato come il secondo mercato di destinazione, lo slancio sta perdendo forza mentre il paese subisce crescenti pressioni politiche da Washington sulle importazioni cinesi.
Analisti del Rhodium Group calcolano che nel complesso, entro il 2027 mercati che rappresentano tra un quarto e metà della domanda automobilistica globale saranno effettivamente chiusi sia alle importazioni cinesi che agli investimenti della Cina nella produzione locale. Gli Stati Uniti, il Canada e l'India sono i principali mercati chiusi, ma gli analisti prevedono che anche Giappone, Corea del Sud e Israele limiteranno drasticamente l'accesso cinese, notando "una sostanziale pressione americana per imporre restrizioni legate alla sicurezza nazionale" e il desiderio dei due paesi dell'Asia orientale di proteggere i produttori interni.
La risposta cinese è stata quella di seguire il percorso tracciato dai giapponesi quattro decenni fa: aggirare i dazi costruendo fabbriche locali. BYD ha annunciato la costruzione di una fabbrica da un miliardo di dollari in Turchia dopo che Ankara ha imposto un dazio del 40% sui veicoli cinesi. Geely ha aperto un impianto in Egitto, il primo in Africa per il conglomerato. Altri produttori stanno creando strutture produttive in Nigeria, Argentina, Malesia e Vietnam. La produzione locale cinese sta però già rimodellando le dinamiche di mercato in alcuni luoghi. L'aumento della produzione di veicoli elettrici in Thailandia ha smorzato le importazioni dalla Cina, e alcuni produttori cinesi dovrebbero iniziare le esportazioni dalla Thailandia verso altri mercati come Australia ed Europa. La quota dei produttori cinesi nelle vendite interne in Thailandia ha raggiunto il 12,4% lo scorso anno, in aumento dal 5,3% nel 2022.
Allo stesso tempo, ci sono segnali che Pechino potrebbe iniziare a scoraggiare i produttori locali dall'investire nella produzione estera. Lo scorso anno, funzionari del Ministero del Commercio cinese hanno "fortemente sconsigliato" alle aziende automobilistiche di creare stabilimenti produttivi in Russia e Turchia, sollecitando anche cautela riguardo a Thailandia ed Europa. Per il momento, molte delle fabbriche che i produttori cinesi stanno creando all'estero sono solo per l'assemblaggio di veicoli sulla base di pacchetti "knocked down" di parti, un approccio che il Ministero del Commercio cinese supporta. Wang Chuanfu, presidente di BYD, ha detto agli investitori in un briefing privato a Hong Kong a marzo che per supportare i piani di raddoppiare le vendite estere dell'azienda dai 417.204 veicoli del 2024, si concentrerà sull'uso globale di parti made in China.
La trasformazione dell'industria cinese da esportatrice di prodotti finiti a esportatrice di capacità produttiva rappresenta una svolta strategica di portata storica. Ma dietro questa apparente espansione trionfale si nasconde una realtà più complessa: l'industria cinese sta fuggendo dai problemi interni tanto quanto sta conquistando mercati esteri. La sovracapacità che doveva essere la base per il dominio mondiale si sta rivelando un fardello insostenibile che costringe a cercare sfoghi altrove.
La grande ironia è che mentre i produttori cinesi cercano disperatamente di esportare i loro problemi di sovracapacità, stanno creando le stesse tensioni commerciali che hanno colpito i giapponesi negli anni Ottanta. La storia si ripete, ma con una differenza cruciale: l'industria giapponese degli anni Ottanta era sana e redditizia quando ha iniziato la sua espansione globale. L'industria cinese di oggi sta globalizzando i propri problemi strutturali parallelamente ai propri prodotti.
Il controllo delle catene globali
L'industria automobilistica cinese è diventata una forza di portata mondiale che ridefinisce gli equilibri economici ben oltre i confini del settore dei trasporti. Quando le decisioni strategiche di una singola azienda cinese possono mandare in tilt i mercati globali delle materie prime, significa che siamo entrati in una nuova era dove il controllo delle catene industriali equivale al controllo del potere economico internazionale.
La vera partita si sta giocando sul controllo delle catene di fornitura globali, dove la Cina ha sviluppato una strategia di lungo termine che potrebbe ridisegnare l'architettura del potere economico industriale. Mentre le aziende occidentali si affannano a riorganizzare le loro supply chain in risposta alle tensioni commerciali, l'industria cinese ha costruito quello che potremmo definire una "keiretsu globale" - una rete di fornitori strettamente integrata sul modello giapponese, ma basata su componenti made in China distribuiti attraverso reti produttive internazionali.
La preparazione strategica delle aziende cinesi di fronte ai dazi di Trump non è stata fortuna, ma il risultato di una pianificazione iniziata anni fa. Quando la prima amministrazione Trump aveva iniziato a brandire i dazi come arma commerciale, i responsabili delle catene di fornitura cinesi avevano già iniziato a costruire piani di emergenza. "Ci siamo preparati per il peggio: il disaccoppiamento totale", ha spiegato un manager della supply chain. "Nessuno lo voleva, ma non potevamo permetterci di essere ingenui".
Le aziende cinesi avevano già sviluppato alternative parallele ai componenti americani, validato fornitori di backup e incrementato la solidità delle loro catene di approvvigionamento. Nio, per esempio, è riuscita a passare rapidamente dai chip di carburo di silicio dell'americana Wolfspeed all'alternativa della fabbrica Onsemi in Corea del Sud solo grazie al fatto che la validazione delle opzioni di backup era iniziata due anni prima.
Questa preparazione difensiva si è però trasformata in arma offensiva: creando una dipendenza globale dalle proprie catene di fornitura, la Cina sta usando la propria industria automobilistica come strumento di influenza internazionale che va ben oltre la semplice resistenza alle guerre commerciali. La strategia si scontra tuttavia con una crescente resistenza occidentale che sta assumendo sempre più i contorni di una nuova Guerra Fredda tecnologica. L'Unione Europea non si limita più a imporre dazi, ma sta spingendo per la "localizzazione" completa delle catene di fornitura. Carlo Diego D'Andrea, presidente del capitolo di Shanghai della Camera di Commercio dell'Unione Europea, ha dichiarato che "i paesi europei vogliono che i produttori cinesi portino l'intera catena di fornitura nel continente, piuttosto che stabilire linee di assemblaggio knocked-down, dove i componenti chiave sono prodotti in patria e spediti all'estero".
Il risultato è una frammentazione accelerata del sistema economico globale lungo linee politiche e commerciali. La regionalizzazione delle catene di fornitura sta diventando rapidamente la norma, con alcuni marchi automobilistici di lusso europei che adottano come strategia standard produrre in Cina per la Cina e negli Stati Uniti per gli Stati Uniti. Ma questa frammentazione comporta costi enormi in termini di efficienza ed innovazione.
I produttori di lusso si trovano in una posizione particolarmente delicata: da un lato subiscono le pressioni per localizzare la produzione, dall'altro non possono rinunciare ai fornitori occidentali per componenti critici come sensori di sicurezza e airbag. La conseguenza è un paradosso industriale dove la localizzazione forzata convive con catene di fornitura ancora profondamente globalizzate per le tecnologie più sensibili, creando inefficienze e duplicazioni costose.
La questione di fondo è se il disaccoppiamento totale in uno spazio così interdipendente invii un segnale di allarme per il commercio globale. Se persino l'industria automobilistica può essere divisa lungo linee politiche e commerciali, cosa succederà negli altri settori? La risposta potrebbe arrivare più presto di quanto molti si aspettino, poiché la Cina sta già applicando le lezioni apprese nell'automotive ad altri comparti strategici.
L'industria automobilistica cinese non sta solo conquistando mercati: sta dimostrando come un paese possa utilizzare il controllo delle catene industriali per proiettare potenza geopolitica. La capacità di influenzare i mercati globali delle commodity, di creare dipendenza tecnologica e di resistere alle pressioni commerciali rappresenta una forma di potere che va ben oltre la tradizionale influenza militare o diplomatica. Questa strategia comporta però rischi enormi. La Cina si trova ora nella stessa posizione in cui si trovava il Giappone negli anni Ottanta, quella cioè di un esportatore dominante che scatena tensioni commerciali globali. Ma c'è una differenza cruciale: mentre l'industria giapponese degli anni Ottanta era finanziariamente solida quando ha iniziato la propria espansione globale, l'industria cinese di oggi sta esportando i propri problemi strutturali insieme ai propri prodotti.
La grande ironia è che mentre la Cina usa la sua industria automobilistica per ridefinire equilibri commerciali e tecnologici globali, quella stessa industria è sull'orlo dell'implosione finanziaria interna. La guerra dei prezzi che ha scatenato il crollo dei futures della gomma naturale è anche il sintomo di un'industria che sta distruggendo valore su scala industriale. La sovracapacità che doveva essere la base per il dominio mondiale si sta rivelando un tallone d'Achille che potrebbe compromettere l'intera strategia geopolitica. La sfida per la Cina è risolvere i paradossi della sua industria automobilistica: come proiettare potenza geopolitica mentre i margini di profitto crollano, come conquistare mercati mondiali mentre si perde il controllo del mercato interno.