Nota: Debito locale, potere centrale e crisi di successione in Cina
Per comprendere le bolle economiche e le divisioni politiche della Cina è necessario conoscere alcuni meccanismi strutturali che contraddistinguono il paese
Negli ultimi tempi mi sono concentrato, sia con i miei post più brevi sia nelle analisi più lunghe, sulle bolle economiche che affliggono la Cina e sui segni di profonde divergenze ai vertici politici e militari del potere cinese. Mi rendo conto però che per leggere correttamente questi resoconti è necessario tenere presenti alcune fondamentali coordinate di contesto. Cerco di farlo nei dettagli qui di seguito.
Il nodo delle amministrazioni locali
Il fattore da tenere sempre presente nell'analizzare quanto accade in Cina è il ruolo fondamentale che le amministrazioni locali, e in particolare le province, hanno nel modello economico e sociale cinese. Le 23 province, alle quali si aggiungono le quasi equivalenti, in termini amministrativi, 5 regioni autonome e 4 aree metropolitane (grandi città come Pechino, Shanghai, Chongqing e Tianjin), oltre a Hong Kong e Macao, sono sotto molti punti di vista degli "stati nello stato". Sono divise internamente in altre entità amministrative, dalle prefetture alle contee fino ai comuni, che hanno anch'esse ruoli rilevanti. Per ragioni storiche sia antiche che più recenti, ricade sulle amministrazioni locali, e ancora una volta in particolare sulle province, una serie di responsabilità che nel loro complesso sono di portata nazionale. Ciò vale soprattutto per le politiche sociali ma anche, in larga misura, per quelle economiche. Una delle peculiarità delle province cinesi è che da una parte sono di gran lunga le principali responsabili degli esborsi per il welfare (dalla sanità alle pensioni, dall'educazione e molto altro ancora), ma dall'altra hanno facoltà molto limitate di imposizione fiscale, mentre lo stato centrale trasferisce loro una quota estremamente ridotta dei propri introiti generati da tasse e altre voci. Le province sono quindi costrette a un costante "lavoro di Sisifo" per fare fronte a questo gap. Negli anni lo hanno fatto generando una bolla obbligazionaria e di shadow banking di proporzioni enormi, che continua a pesare sull'economia cinese. Ma non sono solo le spese per il welfare a gravare sui loro bilanci: lo stato centrale riversa su di esse anche la responsabilità di gran parte delle spese infrastrutturali.
I dati più recenti indicano che nonostante i reiterati tentativi dello stato centrale di porre rimedio all'accumulo di debito da parte delle province, quest'ultimo continua non solo a rimanere a livelli stratosferici, ma addirittura ad aumentare. Attualmente il debito ufficiale esplicito dei governi locali raggiunge la cifra record di 7 trilioni di dollari, con un aumento del 6,6% nei soli primi quattro mesi del 2025, un balzo dovuto alla necessità di porre rimedio alla crescente crisi economica e sociale. Ma il dato ufficiale tiene conto solo delle obbligazioni con garanzia formale delle province e dei comuni. Se si aggiungono i debiti delle società-veicolo dei governi locali utilizzate per "nascondere" il debito (shadow banking) e altre voci di debito fuori bilancio, secondo le stime di S&P e del FMI si arriva a una loro esposizione debitizia totale di oltre 15 trilioni di dollari, pari a quasi l'80% del PIL (se si aggiunge il debito del governo centrale, si arriva a oltre il 120% del PIL).
I fattori macroscopici di instabilità economica sopra descritti non sono dovuti a una "irrazionalità" del governo centrale. Quest'ultimo deve mantenersi libero dalle voci di spesa relative al welfare per poter investire nelle tre altre voci che considera, a ragione, indispensabili per la propria sopravvivenza: la sicurezza interna, per la quale la Cina spende come nessun altro paese industrializzato al mondo, fatta eccezione forse per la Corea del Nord; il sistema militare, per far fronte a un contesto mondiale percepito come ostile fino al punto di minacciare l'esistenza del "modello cinese"; la proiezione della propria grandeur all'estero con iniziative come la Belt & Road e altre simili, resa necessaria tra le altre cose dall'eterna crisi di sovracapacità produttive. Questo spiega in gran parte il perché delle bolle economiche che si gonfiano sempre di più. Se vuole sopravvivere mantenendo la stabilità, il governo centrale (il Partito Comunista) DEVE riversare i costi correnti sociali sulle province e le loro suddivisioni, mentre queste ultime, se vogliono a loro volta sopravvivere mantenendo la stabilità, DEVONO creare bolle che permettano loro di aggirare, almeno temporaneamente, il rischio di sprofondare in deficit irrimediabili.
Un esempio eloquente delle ultime settimane è l'annuncio da parte del governo centrale, nel tentativo di far fronte alla crescente crisi e insoddisfazione sociale, che tutte le limitazioni del sistema dell'hukou verranno abolite. Questo sistema, che ha consentito al capitale cinese di realizzare il proprio balzo degli ultimi decenni, prevede che i lavoratori che vivono nelle aree in cui sono migrati (in tutto 300 milioni, il 40% circa della forza lavoro cinese) non possano godere del welfare locale, ma solo di quello infinitamente più basso, se non addirittura inesistente per alcune voci, delle loro aree rurali di provenienza. Ciò comporta in pratica un abbattimento dei costi, per le province e per tutto il sistema capitalista cinese, di dimensioni gigantesche, grazie al quale hanno prosperato non solo i capitalisti cinesi, ma anche quelli occidentali che hanno spostato la loro produzione in Cina per sfruttarne il più basso costo del lavoro. L'annuncio dell'abolizione di fatto del sistema hukou va accolto con diffidenza per il semplice fatto che è già stato fatto più volte senza esiti reali e consistenti. Ma diffidenza ancora maggiore la suscita il fatto che il governo centrale non chiarisce chi e come sopporterà i costi vertiginosi (si parla di trilioni) che un tale cambiamento comporterebbe. Se i costi dovessero essere a carico delle amministrazioni locali, queste ultime semplicemente non sarebbero nemmeno lontanamente in grado di farvi fronte. Se invece dovessero essere a carico del governo centrale, sicurezza interna, sistema militare e proiezione estera dello stato cinese ne subirebbero un colpo micidiale, e ciò il regime di Pechino certamente non può permetterselo. Questo modello spiega anche perché la Cina, di cui si citano sempre macrodati impressionanti, sia un nano in termini di PIL pro capite e non abbia mai raggiunto nemmeno da lontano livelli di redistribuzione come quelli di paesi vicini quali Giappone, Corea del Sud o Taiwan in fasi comparabili del loro sviluppo.
Fratture nel regime centrale
Se la bolla "eterna" e irrimediabile della Cina può essere spiegata in questi termini, molto più difficile è capire in quale misura le difficoltà estreme delle amministrazioni locali incidano sui recenti evidenti segni di fratture nel regime centrale, che hanno riguardato soprattutto l'ambito militare e ministeriale. Di sicuro le vaste purghe condotte negli ultimi anni a livello locale con la scusa della corruzione sono mirate a disciplinare i livelli locali, sia come amministratori che come dirigenti di partito, i quali prevalgono sui primi in termini di potere effettivo. Ma fino a che punto i disagi tra tali attori locali esercitino pressione sul centro rimane un enorme punto di domanda. Tra i due ambiti, locale e centrale, non vi sono compartimenti stagni. Tutti i leader nazionali devono passare attraverso l'esperienza locale, ivi compreso Xi Jinping, che ha attinto costantemente al serbatoio di contatti e reti di connivenza accumulato nella sua esperienza a livello provinciale per costruire e mantenere il proprio potere. Data la totale opacità che vige in Cina sulle frizioni politiche interne è impossibile determinare quanto l'insoddisfazione tra gli amministratori locali incida sulle diatribe a livello centrale, ma personalmente ritengo che, come minimo, a Pechino siano ben consci e impauriti del potenziale livello di frustrazione, e quindi di boicottaggio, a livello locale.
La questione della successione
Un ultimo aspetto da tenere presente è la questione della successione a Xi Jinping. Il leader massimo ha 72 anni e non ha ancora scelto un successore, né ha lasciato trasparire come intende procedere in merito. In effetti si tratta di un dilemma comprensibile. Da una parte Xi, con le continue purghe per garantirsi un potere stabile, ha fatto terra bruciata intorno a sé. Dall'altra, la nomina di un successore è un'arma a doppio taglio: se da un lato indicarlo garantisce un minimo di stabilità per il futuro del sistema, può anche dall'altro accendere lotte intestine per conquistare il ruolo, o più semplicemente generare destabilizzanti gelosie ai vertici. Il vicino Kim Jong Un ha un compito molto più facile, essendo la sua una dinastia: sta presentando pubblicamente la giovanissima figlia Ju Ae come erede al trono e per ogni evenienza, essendo obeso e fumatore accanito, la sorella Kim Yo Jong come eventuale reggente nel caso in cui il "grande amato leader" dovesse morire quando la figlia è ancora troppo giovane. Sebbene quasi nessuno ne parli, sono convinto che la questione della successione a Xi sia uno dei motivi alla base delle chiare divisioni ai vertici del potere cinese.