La sfida Cina-Usa per il controllo delle miniere del Congo
La Cina in imbarazzo per l’accordo Washington-Kinshasa che minaccia i suoi interessi in Congo. Una partita politica che si gioca sulla pelle della popolazione
L'accordo di pace tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, siglato venerdì scorso a Washington sotto la regia del Segretario di Stato Marco Rubio, rappresenta l'ennesimo momento di imbarazzo per la diplomazia cinese. Come già accaduto con l'invasione russa dell'Ucraina e l'escalation tra Iran e Israele, Pechino si è trovata in una posizione scomoda. Nel caso specifico del Congo è stata costretta ad abbandonare apertamente la sua tradizionale neutralità per proteggere interessi economici vitali, in presenza di una guerra che li minaccia e che ha causato milioni di morti in quasi un trentennio.
Per la prima volta in decenni, la Cina ha criticato esplicitamente il Ruanda per nome, chiedendo a Kigali di "cessare il supporto militare al M23 e ritirare immediatamente tutte le sue forze militari dal territorio della Repubblica Democratica del Congo", come dichiarato lo scorso febbraio da Fu Cong, l'ambasciatore cinese alle Nazioni Unite. Una rottura netta con il principio di non interferenza che ufficialmente ha guidato la politica estera cinese in Africa sin dagli anni Settanta. La decisione di Pechino non è casuale. Dal gennaio 2025, i ribelli del M23 sostenuti dal Ruanda hanno conquistato le città di Goma e Bukavu, nelle province orientali del Nord e Sud Kivu, territori che ospitano centinaia di miniere d'oro gestite da aziende cinesi e riserve cruciali di coltan, il minerale da cui si estrae il tantalio utilizzato nell'industria elettronica e aerospaziale. La Repubblica Democratica del Congo detiene il 40% delle riserve mondiali di tantalio, e la maggior parte viene esportata in Cina.
L'intervento diplomatico cinese, seppur formulato in toni misurati, ha preceduto di poco l'accordo mediato dagli Stati Uniti. Washington, attraverso il suo consigliere per l'Africa, Massad Boulos, ha annunciato discussioni per un patto "minerali per sicurezza" che offrirebbe alle aziende americane accesso privilegiato alle risorse congolesi in cambio di garanzie di stabilità nella regione orientale. Un modello che riecheggia l'accordo "minerali per infrastrutture" siglato dalla Cina nel 2007, ma con una componente militare che Pechino non aveva mai contemplato. Un possibile sviluppo prevede che i minerali estratti nell’est del Congo vengano inviati in Ruanda per la lavorazione, sostituendo l’attuale traffico illecito che consente al Ruanda di riesportare metalli "conflict-free" provenienti in realtà da aree di guerra. Sebbene la natura commerciale dell’accordo promosso da Trump sollevi preoccupazioni legittime, alcuni funzionari regionali ne hanno apprezzato la concretezza, giudicandola coerente con le pratiche di negoziazione diffuse nell’area dei Grandi Laghi. L’intento, dichiarato anche dal team negoziale americano guidato da Gentry Beach, imprenditore vicino alla famiglia Trump, è quello di favorire la pace offrendo alle aziende statunitensi diritti di sfruttamento su miniere strategiche di coltan e litio. Un consorzio americano sta già trattando l’accesso alla miniera di Rubaya, attualmente controllata dai ribelli del M23 sostenuti dal Ruanda.
Il timing dell'iniziativa americana non poteva essere più strategico. Proprio mentre la Cina si dibatte tra la necessità di proteggere i propri investimenti e il desiderio di mantenere buoni rapporti con tutti gli attori regionali, Washington si propone come garante di una stabilità che Pechino, nonostante tre decenni di presenza economica capillare, non è riuscita a garantire. Resta però il timore che la strategia americana riproduca le stesse ambiguità viste in Ucraina, dove un accordo simile sui minerali è naufragato a causa dell’eccessivo squilibrio a favore degli interessi commerciali statunitensi. Ovviamente anche le effettive capacità di stabilizzazione dell’amministrazione Trump, visto il suo curriculum, sono più che dubbie, per usare un eufemismo. Inoltre, l’assenza di un accordo formale con il M23, attualmente in fase di negoziazione separata in Qatar, solleva dubbi sulla reale efficacia del patto, considerato che i ribelli controllano direttamente molte delle miniere oggetto dell’intesa economica.Come riassume efficacemente Le Monde, “Appena concluso, il «patto di pace» è già oggetto di critiche da parte degli esperti della regione, che sottolineano in particolare come il M23 non ne sia firmatario. Poco importa: l’«accordo» c’è, celebrato in pompa magna, così come fu celebrato, nel 2020, l’imperfetto accordo di Doha sul ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, negoziato dagli emissari di Trump con i talebani ma senza il governo afghano. Diciotto mesi dopo, i talebani erano di nuovo padroni del paese, e Trump non esitava ad attribuirne la colpa al suo successore, Joe Biden.
Il monopolio cinese nel cuore dell'Africa
In meno di vent'anni, la Cina ha costruito un dominio quasi assoluto sulle risorse minerarie congolesi. Le aziende cinesi controllano l'80% delle miniere di rame del paese e producono il 70% del cobalto mondiale, un metallo diventato strategico per l'industria delle batterie e la transizione energetica globale. Lungo la strada di 63 miglia che collega Kolwezi a Fungurume, nel cuore della cintura mineraria congolese, si susseguono non solo le gigantesche miniere del CMOC Group, ma anche fabbriche, magazzini e depositi commerciali gestiti da aziende di ogni dimensione provenienti dalle province cinesi dello Shandong e dello Hebei. Questo ecosistema economico ha radici profonde. Nel 2007, sotto la presidenza di Joseph Kabila, Kinshasa firmò quello che venne definito il "contratto del secolo": un accordo da 9 miliardi di dollari, poi ridimensionato a 6 miliardi nel 2009 e rinegoziato a 7 miliardi nel gennaio 2023. Il patto garantiva alle aziende cinesi accesso privilegiato ai giacimenti di rame e cobalto in cambio di investimenti infrastrutturali. Secondo l'Ispettorato Generale delle Finanze congolese, le aziende cinesi hanno già accumulato nel paese profitti totali stimati in 10 miliardi di dollari, mentre la Repubblica Democratica del Congo ha beneficiato di soli 822 milioni in termini di infrastrutture.
Il caso più emblematico di questa penetrazione economica è rappresentato da CMOC, che nel 2016 ha acquisito la miniera di Tenke Fungurume dalla americana Freeport-McMoRan per 3,8 miliardi di dollari. Nel 2020, la stessa CMOC ha pagato altri 550 milioni per la licenza relativa a Kisanfu, che in soli due anni di costruzione è diventata la più grande miniera di cobalto al mondo, superando così il colosso svizzero Glencore nel 2023. La rapidità con cui CMOC ha sviluppato Kisanfu ha sconvolto i mercati globali. L'azienda ha triplicato la produzione di cobalto rispetto a Glencore, contribuendo a un crollo dei prezzi del 75% dal picco del maggio 2022. Questo diluvio di metallo ha avuto conseguenze pesanti per le finanze congolesi: le royalty derivanti dal cobalto sono diminuite del 40% nel 2023, nonostante l'aumento della produzione del 20%. La frustrazione di Kinshasa è culminata nel febbraio 2025 con una decisione senza precedenti: il presidente Félix Tshisekedi ha imposto un embargo totale alle esportazioni di cobalto per quattro mesi. I dirigenti di CMOC a Shanghai hanno appreso la notizia dai media, un dettaglio che illustra il livello di tensione raggiunto tra il governo congolese e quello che è diventato il più importante partner economico del paese. Il divieto, progettato per sostenere i prezzi e mandare un segnale politico a Pechino, riflette la crescente irritazione per il fatto che, sebbene la Repubblica Democratica del Congo produca tre quarti del cobalto mondiale, sono le aziende cinesi, non i politici di Kinshasa, a determinare il valore globale di questo metallo strategico.
La scommessa americana di Tshisekedi
Il presidente congolese Félix Tshisekedi ha scelto di giocare una partita ad alto rischio. Consapevole che Washington considera la dominanza cinese sui minerali critici una minaccia alla sicurezza nazionale, ha formulato un'offerta che ricalca il modello imposto dagli Usa all'Ucraina: accesso privilegiato alle risorse minerarie congolesi in cambio di garanzie di sicurezza per porre fine al conflitto nell'est del paese. La proposta, presentata attraverso la società di consulenza Omnipoynt Management Solutions con sede a Washington, va oltre il semplice accesso minerario. Include il controllo del porto di Banana, sulla costa atlantica occidentale, e la possibilità per gli Stati Uniti di stabilire basi militari sul territorio congolese per proteggere le risorse strategiche. Un'escalation significativa rispetto al tradizionale approccio cinese, che si è sempre limitato agli investimenti economici evitando componenti militari dirette. Il contesto in cui matura questa offerta è drammatico. Con la situazione militare che si è deteriorata drammaticamente, i ribelli minacciano ora di avanzare verso la capitale Kinshasa e rovesciare il governo Tshisekedi. Le forze dei ribelli controllano ora territori ricchi di oro, stagno e tantalio, oltre alle aree dove operano circa 450 aziende minerarie, molte delle quali cinesi e spesso prive delle necessarie autorizzazioni.
Gli Stati Uniti hanno risposto con una combinazione di pressioni diplomatiche e sanzioni. L'Ufficio per il Controllo dei Beni Stranieri del Dipartimento del Tesoro ha inserito nella lista nera il ministro ruandese James Kabarebe e il portavoce del M23 Lawrence Kanyuka. Contemporaneamente, Washington ha espresso il proprio apprezzamento per la decisione della società mineraria statale Gecamines di respingere per due volte l'offerta da 1,4 miliardi di dollari avanzata da Norin Mining, sussidiaria del produttore di armi cinese Norinco, per l'acquisizione di Chemical of Africa.
Tuttavia, la strategia americana parte da una posizione di svantaggio. I dati commerciali del 2024 mostrano scambi tra Cina e Repubblica Democratica del Congo per 27 miliardi di dollari, contro appena 820 milioni tra il paese africano e gli Stati Uniti. Mentre Pechino ha costruito in tre decenni una rete capillare di investimenti che spazia dalle grandi corporazioni statali ai piccoli commercianti di metalli, Washington deve fare affidamento su strumenti finanziari come la Development Finance Corporation, che durante l'amministrazione Biden non è riuscita a stimolare investimenti significativi nel settore minerario congolese. L'unica eccezione potenziale è rappresentata da KoBold Metals, sostenuta da Bill Gates e Jeff Bezos, che ha annunciato l'intenzione di investire oltre un miliardo di dollari per sviluppare un deposito di litio situato 270 miglia a nordest di Kolwezi. Ma esempi come questo restano isolati in un panorama dominato dalla presenza cinese.
Il rischio per Tshisekedi è evidente: alienarsi il partner economico principale senza garanzie che Washington possa offrire un'alternativa credibile. Il governo di Kinshasa sta camminando su una corda tesa, cercando di diversificare le proprie alleanze senza provocare una reazione cinese che potrebbe danneggiare un'economia già fragile e dipendente per il 40% del PIL dalle esportazioni di rame e cobalto.
Il prezzo umano della transizione verde
Mentre diplomatici e amministratori delegati negoziano accordi multimiliardari nelle capitali del mondo, nelle viscere della terra congolese si consuma quotidianamente una tragedia silenziosa. All’interno delle miniere industriali e artigianali che alimentano la transizione energetica globale, centinaia di migliaia di lavoratori congolesi pagano con la propria salute e dignità il prezzo di batterie che permetteranno a milioni di automobili elettriche di circolare per le strade di Pechino, Detroit e Francoforte. Almeno 200.000 minatori artigianali lavorano nei giacimenti di cobalto del paese, spesso in condizioni che ricordano quelle dell'era coloniale. Nei tunnel scavati a mano che si snodano sotto le province di Lualaba e Haut-Katanga, donne con bambini legati sulla schiena respirano quotidianamente polveri tossiche di cobalto per guadagnare l'equivalente di due dollari al giorno. Bambini di età compresa tra i 7 e i 17 anni trascinano sacchi di minerale pesanti quasi quanto loro stessi, arrivando a lavorare anche quattordici mesi consecutivi senza un giorno di riposo.
La ricerca condotta dall'organizzazione britannica RAID nelle cinque principali miniere industriali del paese ha documentato un sistema di sfruttamento sistematico. Secondo RAID, nelle operazioni gestite da Glencore, China Molybdenum e altri giganti minerari, il 57% dei lavoratori viene assunto attraverso società di subappalto che permettono alle multinazionali di ridurre costi e responsabilità legali. Questi lavoratori guadagnano spesso meno di 402 dollari al mese, il salario minimo di sopravvivenza calcolato per la regione di Kolwezi, e non ricevono assistenza sanitaria adeguata nonostante la legge congolese lo richieda. Operatori di macchinari pesanti sviluppano ernie del disco dopo la lunga esposizione a vibrazioni costanti durante turni di dodici ore, sei giorni alla settimana. La maggior parte di questi lavoratori che divengano inabili al lavoro, viene licenziata.
Particolarmente gravi sono le condizioni nelle miniere gestite da aziende cinesi, dove i lavoratori congolesi denunciano episodi quotidiani di razzismo e violenza fisica. Testimoni hanno riferito di superiori cinesi che ordinano a guardie congolesi di picchiare i propri connazionali, di lavoratori presi a schiaffi per non aver compreso istruzioni impartite in mandarino, di bambini trascinati per le orecchie quando commettono errori. "La nostra situazione è peggiore di prima", ha dichiarato un minatore alla rivista The New Yorker. "I cinesi vengono e impongono i loro standard e la loro cultura. Non trattano bene i congolesi. Si tratta di una nuova colonizzazione." Il dramma raggiunge il suo apice nelle miniere artigianali, dove il crollo dei tunnel rappresenta una costante minaccia di morte. Senza supporti, sistemi di ventilazione o misure di sicurezza, questi tunnel spesso collassano seppellendo vivi tutti coloro che si trovano all'interno. Solo tra il 2019 e il 2023, sei miniere monitorate dall'organizzazione RCS Global hanno registrato 65 morti, cifra che rappresenta solo una frazione del bilancio reale considerando le centinaia di siti non controllati.
Il coinvolgimento di minori nel settore è sistematico e spesso organizzato da gruppi armati che trafficano bambini da altre regioni del Congo. Questi "commandos" reclutano minori anche a centinaia di chilometri di distanza, utilizzando i proventi del loro lavoro per finanziare le proprie attività militari. I bambini rappresentano la manodopera più vulnerabile e sfruttata del settore, costretti ad abbandonare la scuola per contribuire al sostentamento familiare con salari di pochi centesimi al giorno.
L'industria mineraria ha devastato anche il paesaggio ambientale della regione. Milioni di alberi sono stati abbattuti, l'aria è satura di polveri metalliche tossiche e le falde acquifere sono state contaminate dagli effluenti dei processi di lavorazione. Le comunità rurali sono state sfrattate con la forza per fare spazio alle concessioni minerarie, spesso senza adeguati risarcimenti o alternative abitative. Questa realtà è in stridente contrasto con la retorica della "transizione verde" promossa dalle capitali occidentali e cinesi. Mentre i grandi produttori di veicoli elettrici si vantano di contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico, i loro fornitori di cobalto perpetuano un sistema di sfruttamento che replica le peggiori pratiche dell'era coloniale. Le iniziative volontarie dell'industria per il "sourcing responsabile" si rivelano largamente inefficaci, mancando di meccanismi vincolanti e di controlli effettivi lungo l'intera catena di approvvigionamento.
Mentre le trattative diplomatiche per l'accordo "minerali per sicurezza" proseguono tra Washington e Kinshasa, e la Cina mantiene la propria presa sul settore minerario, centinaia di migliaia di congolesi continuano a scavare nelle viscere della terra per alimentare smartphone e automobili che non potranno mai permettersi. La loro sofferenza rimane invisibile ai consumatori finali, sepolta sotto strati di intermediari, raffinerie e catene di approvvigionamento opache che permettono alle multinazionali di negare ogni responsabilità.