Il mito dell'invasione: il Giappone e il capro espiatorio dell'immigrazione
Il Giappone attribuisce agli immigrati la colpa dell'aumento della criminalità, ma i dati raccontano un'altra storia: la crisi è interna, non viene dall'esterno
Negli ultimi mesi in Giappone si è riaccesa una discussione densa di tensioni attorno all'immigrazione, alla sicurezza e alla crisi dell'identità nazionale. Le preoccupazioni per il crescente numero di crimini, in particolare aggressioni indiscriminate, hanno alimentato un clima di panico sociale. L’impressione diffusa, alimentata da media e politica, è che la causa principale del degrado sia da ricondurre alla presenza sempre più visibile degli stranieri. Ma è davvero così?
Un primo livello di analisi, al centro di un articolo pubblicato sul Japan Times, mostra come la nuova apertura del Giappone all’immigrazione, verificatasi sulla spinta del declino demografico e della carenza di manodopera, sia vissuta con disagio da una parte della popolazione. La società giapponese, che nella sua grande maggioranza si considera etnicamente omogenea, fatica a gestire l’integrazione culturale e sociale dei nuovi arrivati. Da ciò derivano forme più o meno esplicite di razzismo, stereotipi consolidati e una difficoltà sistemica ad accettare che lo “straniero” possa contribuire positivamente al futuro del paese. A questo si aggiunge un senso latente di perdita. Molti cittadini percepiscono il cambiamento etnico e culturale come una minaccia all’ordine, all’estetica e ai valori tradizionali della società giapponese. È un disagio che trova espressione non solo nell’opinione pubblica, ma anche nelle retoriche di alcuni politici locali e nei media conservatori, che amplificano episodi isolati di cronaca per alimentare un senso di emergenza permanente.
Come sottolinea un articolo pubblicato su Huxiu, questa ansietà non è soltanto frutto degli sviluppi più recenti, bensì l’emergere di una frattura profonda, culturale e strutturale, che attraversa la società giapponese. La xenofobia che serpeggia nel dibattito pubblico è solo una delle manifestazioni di una più ampia crisi della narrazione nazionale. Il Giappone, negli ultimi decenni, ha costruito la propria immagine pubblica su un ideale di ordine, sicurezza e superiorità morale, rafforzato da bassi tassi di criminalità e da una coesione sociale apparente. Oggi, però, questo immaginario entra in crisi.
L’aumento della criminalità giovanile, le aggressioni casuali e la crescita dell’insicurezza sociale segnalano che qualcosa si sta spezzando. I dati sono chiari: nei primi mesi del 2025 i reati sono aumentati dell’8,7% a livello nazionale, e a Tokyo i crimini minorili hanno registrato un +22,4% nel corso dell’anno precedente. Eppure, mentre la stragrande maggioranza di questi reati è commessa da cittadini giapponesi, l’attenzione mediatica tende a concentrarsi sui pochi episodi che coinvolgono stranieri, generando una percezione distorta e pericolosa.
Questa tensione si è manifestata anche in forme emblematiche, come il recente caso della doppiatrice Megumi Hayashibara. Famosa per aver prestato la voce a Hello Kitty e ad altri personaggi iconici, Hayashibara ha pubblicato un post sul proprio blog in cui ha definito gli stranieri come “specie invasive”, paragonandoli a crostacei esotici che mettono a rischio gli equilibri dell’ecosistema giapponese. Le critiche online l’hanno poi costretta a cancellare il paragone, ma l’episodio ha avuto forte eco. Non si tratta di un caso isolato ed è invece il sintomo di un sentimento crescente in ampi settori dell’opinione pubblica.
La tensione tra necessità economica e resistenza culturale emerge chiaramente anche dai dati di un'indagine internazionale condotta da Ipsos su 29 paesi e pubblicata in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato. I risultati mostrano che i giapponesi hanno una visione particolarmente dura dei rifugiati rispetto ai cittadini di altri paesi: solo il 17% crede che i rifugiati riusciranno a integrarsi con successo nella società giapponese, il tasso più basso tra tutti i 29 paesi analizzati, contro una media globale del 40%. Ancora più significativo è il fatto che solo il 20% dei giapponesi consideri i rifugiati come un contributo positivo per il paese, il secondo tasso più basso dopo l'Ungheria. Sul fronte dell'azione concreta, il 92% dei giapponesi dichiara di non aver fatto nulla negli ultimi 12 mesi per aiutare i rifugiati, il tasso più alto di inazione a livello mondiale.
Secondo un’altra indagine recente, questa volta del Ministero della Giustizia, il 78 % dei cittadini giapponesi ritiene essenziale che gli stranieri “seguano le regole locali”. L’immigrazione è quindi percepita prima di tutto come possibile minaccia culturale. C’è il timore che vengano compromessi ordine, rispetto delle norme ed efficienza. Eppure, quando l’argomento si sposta su opzioni drastiche come la chiusura totale delle frontiere o il sospetto generalizzato verso le richieste di asilo, gli intervistati si mostrano meno intransigenti della media globale, segno di un atteggiamento più sfaccettato di quanto suggerisca la retorica xenofoba.
Proprio su queste paure ambivalenti fa leva il blogger-imprenditore Hiroyuki Nishimura, che grazie ad algoritmi e video sensazionalistici amplifica episodi marginali, un turista che non paga le spese mediche, una patente rilasciata con leggerezza, e li trasforma in prova di un presunto declino. Titoli come «Il Giappone non è più un paese per giapponesi» o «Perché dovremmo mantenere gli stranieri?» funzionano da calamita per l’indignazione, alimentando l’idea che l’ospitalità nazionale sia sistematicamente “abusata”, anche quando le statistiche indicano il contrario.
In realtà, la dinamica sul campo è più prosaica. Mari Matsumura, fondatrice dello studio legale internazionale Haneda, osserva che circa l’80 % dei suoi assistiti stranieri ha smesso di puntare alla residenza permanente preferendo la naturalizzazione: «Cambiare passaporto per loro è come cambiare casa», spiega. Per molti studenti provenienti da Nepal, Bangladesh o Sri Lanka la cittadinanza giapponese è soprattutto uno strumento pratico, poiché consente un accesso più facile al lavoro o alla mobilità internazionale, più che un’adesione profonda ai valori nazionali. Questo scarto tra percezioni allarmistiche e motivazioni pragmatiche mostra quanto il dibattito pubblico resti, in larga parte, scollegato dalla realtà quotidiana dei nuovi arrivati.
A rendere tutto più esplosivo è il fatto che la questione migratoria viene oggi strumentalizzata anche sul piano politico. Il partito Reiwa Shinsengumi, guidato da Taro Yamamoto, intercetta il malessere delle fasce più colpite dalla crisi, come giovani, lavoratori irregolari, anziani soli, e lo rielabora in chiave populista e identitaria, proponendo soluzioni simboliche e semplificate, come il rafforzamento del controllo delle frontiere o la “difesa dei valori giapponesi”. Anche il primo ministro Shigeru Ishiba ha dichiarato recentemente che il Giappone “accetterà solo stranieri che rispettano le regole”, mentre Taro Kono, uno dei leader più in vista del LDP al governo, ha lanciato campagne contro l’immigrazione illegale.
Intanto, nelle aule parlamentari emerge un dibattito ancora più preoccupante che rivela la profondità dell'ansia identitaria giapponese. Hirofumi Yanagase, parlamentare della Camera Alta, ha sollevato una questione paradossale: la naturalizzazione giapponese sarebbe troppo facile rispetto al permesso di soggiorno permanente. Secondo Yanagase, molti stranieri scelgono di naturalizzarsi perché ciò richiede solo cinque anni di residenza consecutiva contro i dieci necessari per la residenza permanente, e controlli fiscali meno rigorosi. I dati del Ministero della Giustizia mostrano che nel 2024 oltre 8.800 stranieri si sono naturalizzati - principalmente cinesi (35%) e coreani (25%) - su circa 12.000 domande presentate.
La preoccupazione di Yanagase non è solo burocratica ma profondamente politica: teme che i residenti da cinque anni "non abbiano una comprensione abbastanza profonda del Giappone" per votare ed essere eletti, e giunge addirittura a formulare ipotesi grottesche come quella secondo cui "il Partito Comunista Cinese diventerà influente facendo naturalizzare suoi membri e candidandoli alle elezioni". Per questo propone di limitare i diritti di voto per la prima generazione di cittadini naturalizzati e di rendere revocabile lo status di naturalizzazione per chi rappresenta una non meglio definita minaccia alla sicurezza nazionale.
Il bilancio finale però è chiaro: la crisi giapponese non è causata dagli stranieri, ma dal rifiuto collettivo di affrontare i nodi irrisolti della propria modernità. È un momento di verità per un paese che ha costruito negli ultimi decenni la propria immagine pubblica sull’eccezionalismo e l’uniformità, ma che oggi si trova di fronte alla necessità storica di cambiare profondamente, anche a livello culturale.
FONTI:
“Cultural anxiety and Japan's immigration pains”, Japan Times, https://www.japantimes.co.jp/commentary/2025/06/12/japan/japan-immigration/
“Japan's collapse: Is the surge in crime to blame on foreigners?”, Huxiu, https://www.huxiu.com/article/4456541.html
“The growing pains of Japan on immigration”, Taipei Times, https://www.taipeitimes.com/News/editorials/archives/2025/06/15/2003838630
“Survey shows Japanese have harsh views toward refugees”, Asahi Shimbun, https://www.asahi.com/ajw/articles/15854968
“Calls to make naturalization more difficult emerge in parliament talks”, Japan Times, https://www.japantimes.co.jp/news/2025/06/20/japan/politics/naturalization-permanent-residency/