Giappone al bivio: riso, rabbia e derive identitarie
Le elezioni per la Camera Alta del 20 luglio si trasformano in un referendum sulla leadership di Ishiba, mentre crescono formazioni populiste con messaggi xenofobi e anti-immigrati
Le elezioni per la Camera Alta del 20 luglio si svolgeranno in un clima di logoramento profondo per il governo giapponese. Shigeru Ishiba, alla guida del Partito Liberal Democratico (LDP), affronta questa tornata elettorale con l’autorità minata e una base parlamentare già indebolita dalla perdita della maggioranza alla Camera Bassa lo scorso ottobre. Il voto, pur non determinando direttamente la formazione del governo, assume di fatto la forma di un referendum sulla sua leadership. E, per estensione, sull'intero equilibrio istituzionale del paese.
La recente disfatta alle municipali di Tokyo, dove il LDP ha perso la sua posizione dominante, ha aggravato le tensioni interne al partito e acceso i riflettori sulle vulnerabilità della coalizione al potere. Né Ishiba né i suoi alleati di governo sembrano in grado di articolare una strategia convincente per risalire la china. Le promesse economiche appaiono incerte, il messaggio politico è contraddittorio, e i segnali di disaffezione si moltiplicano. La fragilità del governo è resa ancora più evidente dall’assenza di un successore credibile a Ishiba, che ha assunto la guida del LDP, un partito di destra, in un momento già segnato dallo scandalo dei fondi non dichiarati. Le dimissioni forzate dei leader di tutte le principali fazioni interne, tranne quella legata all’ex premier Aso, hanno lasciato il partito acefalo e privo di coesione. Il risultato è un governo che procede per inerzia, con l’unico obiettivo immediato di sopravvivere al voto.
Tuttavia, anche nel caso in cui il LDP dovesse riuscire a limitare le perdite e a evitare una disfatta elettorale, la situazione parlamentare resterebbe complicata. Se la coalizione dovesse perdere la maggioranza anche alla Camera Alta, dopo averla già persa alla Camera Bassa, l’esecutivo sarebbe costretto a negoziazioni continue con formazioni minori e poco affidabili, rendendo difficile l’approvazione delle leggi e alimentando l’instabilità. Se invece il risultato dovesse segnare un crollo più netto del previsto, con una forte avanzata delle opposizioni e delle destre radicali, le pressioni per un passo indietro di Ishiba diventerebbero difficili da contenere, aprendo la strada a una crisi di leadership in un partito già privo di una guida alternativa condivisa.
Il paese si ritrova così a pochi giorni dal voto con un governo screditato, una maggioranza in bilico e un’opinione pubblica disillusa. Il rischio non è soltanto la sconfitta elettorale del LDP, ma il permanere di una paralisi politica in un momento segnato da scelte economiche urgenti, trasformazioni sociali profonde e un crescente scollamento tra cittadini e istituzioni.
La rabbia e il riso
Nel cuore della campagna elettorale per la Camera Alta si è insediato un tema che, a prima vista, sembrerebbe marginale: l’aumento del prezzo del riso. Ma nel Giappone del 2025, dove simboli e realtà si confondono spesso, il riso è diventato il barometro politico di una stagione inquieta. L’impennata dei prezzi, con un aumento fino al 90% rispetto all’anno precedente, ha colpito non solo i bilanci familiari, ma anche l’immaginario collettivo. Il riso in Giappone non è una merce qualsiasi, è carico di storia, identità, riti. Il suo rincaro ha innescato un malcontento trasversale, che ha messo a nudo le contraddizioni delle politiche agricole, le fratture territoriali e l’incapacità del governo di offrire risposte credibili in tempi rapidi.
La gestione iniziale della crisi è stata incerta, segnata da ritardi e sottovalutazioni. Solo a marzo il governo ha deciso di intervenire aprendo le riserve statali, una mossa che secondo molti analisti sarebbe dovuta arrivare mesi prima. Il malcontento popolare era già esploso quando, in alcune zone urbane, cinque chili di riso hanno superato i tremila yen, circa 21 dollari. Le prime timide riduzioni dei prezzi si sono registrate solo a fine maggio, ma ormai la questione aveva assunto un valore politico. Il ministro dell’agricoltura Koizumi, entrato in carica proprio in quel momento, ha beneficiato di un certo consenso iniziale per il suo stile comunicativo diretto e per la sua estraneità alle correnti più opache del LDP. Tuttavia, il danno d’immagine era già stato fatto: l’inerzia del governo, aggravata dalla caduta del ministro precedente per una frase infelice proprio sulla crisi del riso, ha alimentato la sensazione diffusa che le istituzioni non comprendano le difficoltà concrete dei cittadini.
Di fronte alla crescente pressione, il governo ha tentato una mossa d’effetto: l’annuncio di un sussidio universale di 20.000 yen (circa 140 dollari) a ogni residente, accompagnato da ulteriori bonus per i minori e per le famiglie esenti da imposte locali. Una misura presentata come un aiuto concreto contro l’inflazione, ma che ha suscitato reazioni ambivalenti. Per alcuni cittadini, intervistati dalla stampa giapponese, si tratta di un intervento troppo modesto e tardivo. Per altri, soprattutto tra gli elettori più giovani o politicamente disillusi, appare come un’elemosina in cambio di voto. La stessa base conservatrice guarda con sospetto a un provvedimento che contraddice il tradizionale rigore fiscale del partito. Inoltre, il fatto che anche i redditi medio-alti ne beneficeranno ha alimentato la sensazione di un’operazione elettoralistica, più che di una reale strategia redistributiva. I sondaggi mostrano un’opinione pubblica frammentata, spesso incerta, ma con una chiara domanda di cambiamento. A beneficiarne potrebbero essere le forze antisistema o populiste, più abili nel semplificare i messaggi e nel cavalcare il risentimento.
Così il riso, da alimento quotidiano, si è trasformato in grimaldello politico. La sua ascesa nei mercati alimentari ha coinciso con il crollo della fiducia nel governo, rendendo evidente quanto l’economia percepita, quella dei supermercati, dei pranzi scolastici, delle mense aziendali, conti più di qualsiasi indicatore macroeconomico. L’elettorato giapponese non chiede miracoli, ma vuole coerenza, trasparenza e risposte tempestive. In assenza di queste, anche un pacco di riso può diventare un manifesto d’accusa.
Il “nemico” interno
Negli ultimi mesi, accanto ai temi economici, è tornata con forza al centro del dibattito pubblico giapponese la questione dell’immigrazione (a questo argomento ho dedicato recentemente una specifica analisi: Il mito dell'invasione: il Giappone e il capro espiatorio dell'immigrazione). Non si tratta di un’emergenza reale, ma di una costruzione politica e mediatica che ha fatto dell’“altro” il bersaglio privilegiato di una società in cerca di spiegazioni semplici per disagi complessi. Il numero di naturalizzazioni è cresciuto, soprattutto tra cinesi e coreani, anche perché le regole per ottenere la cittadinanza giapponese sono, paradossalmente, meno rigide di quelle per la residenza permanente. Questa incongruenza ha scatenato l’indignazione di una parte del mondo politico conservatore, che ora invoca una revisione radicale dei criteri di accesso, paventando scenari di “infiltrazione” elettorale da parte di forze ostili. Secondo alcuni parlamentari, i cittadini naturalizzati non avrebbero una comprensione sufficiente del paese per poter votare o candidarsi, e si propone quindi di limitare i loro diritti politici o di rendere revocabile la cittadinanza in caso di “minaccia alla sicurezza nazionale”, un concetto volutamente vago, che apre la strada a ogni arbitrio.
Dietro questo irrigidimento si intravede una crisi identitaria più profonda, legata non tanto alla presenza crescente di immigrati quanto al fatto che l’apertura selettiva all’immigrazione, decisa per esigenze di forza lavoro e di bilancio demografico, si è innestata su un tessuto sociale impreparato a metabolizzarne le implicazioni. Ne è derivato un senso diffuso di disorientamento, che ha trovato sfogo nella rappresentazione degli stranieri come minaccia a un ordine percepito come fragile. In questa distorsione simbolica, ogni variazione linguistica, estetica o comportamentale è diventata bersaglio di sospetto. Il caso recente della doppiatrice Megumi Hayashibara, che ha paragonato gli stranieri a specie invasive, è solo l’episodio più eclatante di un clima reso tossico da anni di messaggi allarmistici, veicolati soprattutto attraverso i social e alcuni mezzi d’informazione conservatori.
A trarre vantaggio da questa atmosfera sono stati in particolare i partiti di estrema destra, come Sanseito e il Partito Conservatore del Giappone (CPJ). Entrambi hanno costruito le proprie fortune elettorali su un discorso aggressivo e reazionario, che non si limita alla xenofobia ma abbraccia una visione cinica e spietata della società. Emblematiche, in questo senso, sono le dichiarazioni rese nel 2024 da esponenti di Sanseito, secondo cui il problema dell’invecchiamento della popolazione andrebbe affrontato anche incoraggiando forme di eutanasia o sterilizzazione delle donne oltre i trent’anni, nel nome del contenimento della spesa pubblica. Tali uscite, sebbene condannate da una parte della stampa, hanno trovato consenso in ambienti che vedono negli anziani, nei disabili o nei “non produttivi” un peso economico da ridurre. Il calcolo è brutale, ma coerente con la logica di un partito che trasforma la fragilità in colpa e l’assistenza in privilegio.
Non si tratta di episodi isolati o folkloristici, ma di segnali di una deriva più ampia. A differenza del passato, in cui queste formazioni restavano ai margini, oggi esse sottraggono consensi reali al LDP e agli altri partiti conservatori, intercettando un elettorato disilluso, impaurito, convinto che le istituzioni abbiano tradito i propri doveri. I sondaggi non ne indicano una crescita esplosiva, ma mostrano un consolidamento lento e continuo, favorito anche dal discredito che colpisce le forze politiche tradizionali. Il loro messaggio è semplice, polarizzante, viscerale, e si diffonde facilmente in una società in cui la cultura politica appare disabituata alla complessità. L'immigrato, il naturalizzato, il disabile, l'anziano povero: tutti diventano, a turno, simboli di un presunto declino.
Tuttavia, la realtà sociale è molto più sfaccettata di quanto lascino intendere le retoriche securitarie. Secondo i dati forniti dagli stessi servizi di immigrazione, la maggioranza degli stranieri presenti in Giappone è composta da lavoratori, studenti o membri di famiglie miste. Per molti di loro la cittadinanza giapponese è una scelta pragmatica, un modo per semplificare la vita quotidiana in un paese che resta estremamente esigente in termini di documentazione e accesso ai diritti. Mari Matsumura, avvocata specializzata in visti e permessi, ha spiegato in un’intervista che cambiare passaporto per molti suoi clienti è un gesto simile a cambiare casa, non certo un atto di strategia politica. Eppure, questo dato concreto fatica a emergere nel dibattito pubblico, schiacciato com’è dalla paura, dal risentimento e da un senso diffuso di vulnerabilità che i partiti più radicali sono riusciti a trasformare in carburante politico.
Frammentazioni e derive
Se la sfiducia verso il governo Ishiba e la crescita di formazioni radicali rappresentano due facce della stessa crisi, l’altro elemento decisivo di questa tornata elettorale è lo stato di disarticolazione dell’opposizione. Le principali forze alternative al LDP, a partire dal Partito Democratico Costituzionale e dal Partito Democratico per il Popolo, faticano a proporsi come opzione credibile e coesa. Le loro proposte in materia fiscale e sociale sono più coerenti di quelle del governo, ma mancano di visibilità e coerenza strategica. Le vicende personali dei leader, come il caso di Yuichiro Tamaki, leader del Partito Democratico per il Popolo, e le sue dichiarazioni ambigue nei confronti delle donne, in particolare quando ha affermato, in inglese, che «le nostre idee sono difficili da comprendere per loro», riferendosi esplicitamente alle donne, hanno contribuito a smorzare ogni slancio. Anche laddove i partiti di opposizione ottengono risultati promettenti, come a Tokyo, non riescono a consolidare il successo in una proposta nazionale unitaria, lasciando uno spazio vuoto che altri soggetti riempiono con più aggressività e meno scrupoli.
In questo contesto, l’elettorato si muove con crescente volatilità. Le analisi post-elettorali mostrano che una parte consistente degli elettori non vota più per appartenenza ma per esclusione, per rabbia, per mancanza di alternative. I partiti tradizionali, travolti dagli scandali e dalla paralisi interna, non sono più percepiti come garanti di stabilità, mentre le nuove formazioni, pur essendo minoritarie, riescono a imporre temi e linguaggi nel dibattito pubblico. Il risultato è una polarizzazione latente, non ancora pienamente esplosa nelle urne ma visibile nei toni della campagna elettorale, nei commenti online, nei discorsi dei candidati più radicali. Non si assiste a una spaccatura netta tra destra e sinistra, ma a una moltiplicazione di linee di frattura: generazionali, territoriali, culturali, persino linguistiche.
Il disorientamento è rafforzato da un sistema politico che, pur mantenendo una facciata ordinata, rivela segnali crescenti di logoramento. Le trasformazioni demografiche, l’aumento delle disuguaglianze, l’erosione del tessuto sociale urbano, l’indebolimento delle reti familiari e locali hanno generato un senso di solitudine che la politica stenta a intercettare. Le promesse di “rigenerazione” avanzate da alcune forze centriste non riescono a scalfire il sospetto diffuso che tutto resti uguale. Al tempo stesso, i messaggi semplificati e identitari offerti dalla destra radicale trovano terreno fertile, non perché convincenti, ma perché capaci di tradurre in parole lo smarrimento di ampie fasce della popolazione. La difficoltà non riguarda solo chi governa, ma l’intero sistema dei partiti, incapace di immaginare il futuro senza ricorrere a narrazioni del passato.
Eppure, nonostante la stagnazione e la frammentazione, il Giappone resta attraversato da segnali di vitalità civile. Le mobilitazioni locali, le iniziative associative, le forme di mutuo soccorso nate durante la pandemia o attorno alle questioni ambientali, indicano che la società non è passiva. Il problema è la distanza crescente tra questi fermenti e le forze politiche che in teoria dovrebbero rappresentarli. Il voto del 20 luglio si presenta quindi come uno snodo senza garanzie, in cui la conferma o la caduta di Ishiba rappresentano solo una parte della posta in gioco. Sullo sfondo, si profila una transizione ancora senza direzione chiara, in cui la domanda di cambiamento che viene dal basso si scontra con un sistema troppo rigido, troppo lento e troppo autoreferenziale per raccoglierla. Il rischio non è solo l’instabilità, ma la perdita di senso stesso della politica ufficiale.